NON C'E' PIU' NIENTE DA FARE? IL CON-SOLARE RESTA, SEMPRE

di Daniela Buvoli Scordamaglia BFRP

Relazione alla Conferenza Internazionale "Seeing Beyond - Vedere Oltre" - Padova 26 - 28 settembre 2014






Da sempre istintivamente l'uomo insegue la felicità e la qualità della vita e non pensa alla morte, per quanto rappresenti la sua destinazione finale e certa. Arriva poi un momento in cui l'uomo sente approssimarsi una data intuita e non voluta, un momento in cui sembra perdere tutte le aspettative e le speranze di un futuro perchè tutto sembra già essere deciso.
E', ad esempio, il caso di una malattia che non risponde più ad alcun trattamento attivo ed emerge la paura dell'abbandono, dell'ignoto, dell'oblio.
Quando il corpo muore l'uomo incontra la propria fragilità fisica, emotiva, mentale, spirituale.
Quando il corpo muore è la nostra vita che muore, sono le perdite, i distacchi, le paure, il Mistero.
Quando il corpo muore è forse la possibilità di fare spazio dentro di sé per trovare o ritrovare il significato del nostro esserci e del nostro lasciare.
E' dunque anche nella fragilità che gli esseri possono incontrarsi con tenerezza e compassione, riconoscendo i propri bisogni ed entrando in contatto, ognuno con la propria dimensione psicofisica e spirituale.
Vivere per non sopravvivere.
Non è certo facile offrire una presenza positiva accanto ai malati durante l'accompagnamento nel cammino, spesso travagliato, verso la fine della vita e non è possibile consigliare un comportamento standardizzato ed in tutti i casi formalmente corretto: mai come in questi momenti è evidente l'UNICITA' della persona affidata alle cure. Il momento del morire diventa l'occasione per rendere presente di nuovo ciò che si sottrae alla coscienza, l'aldilà delle cose e del tempo, il cuore delle angosce e delle speranze, la sofferenza del dialogo eterno della vita e della morte.

Dice Emily Dickinson:
C'è una solitudine dello spazio,
una solitudine del mare,
una solitudine della morte,
ma queste non sarebbero che una folla
comparata a quel luogo profondo, quella polare segretezza,
di un'anima ammessa al proprio cospetto
finita infinità.

Allora il consolare prende il suo significato etimologico di con-solere. Stare con chi è solo in questa solitudine e abbandono degli uomini e delle cose, consapevoli di noi stessi della nostra solitudine. Poi accade come quando ci si trova improvvisamente al buio e ci si prende per mano, ognuno è come l'altro e reciprocamente ci si sostiene nel cercare la via.
Nel momento di maggiore solitudine, con il corpo spezzato sulla soglia dell'infinito, subentra un altro tempo che non può essere misurato con i nostri criteri. In pochi giorni o in pochi attimi, con l'aiuto di una persona che permetta alla disperazione e al dolore di esprimersi, il malato può anche comprendere la propria vita, seguirne il filo rosso, appropriarsi del senso della propria esistenza, ne manifesta tutta la verità.
Anche un solo attimo può illuminare la storia di tutta una vita.

Nell'accompagnamento si diventa ostetrici di noi stessi, ci si apre alla tenerezza e soprattutto alla disponibilità di entrare in intimità per aprirsi a linguaggi non usuali. Non ci sono obiettivi, non si ricercano soluzioni, ma ci si lascia guidare dalle reazioni, condivisioni, emozioni dell'altro.
Respirare respiro nel respiro, sentire il ritmo del battito del cuore, accarezzare per riconoscere e incontrare non solo un corpo ma una soggettività, muoversi nello spazio del senso, che come dice Jaspers, è lo spazio della comprensione, non della spiegazione, un luogo dove il pensare, il sentire ed il volere sono in rapporto armonico tra di loro.
Uno spazio dove insieme si diventa cercatori di pietre preziose.

Nell'accompagnamento diventa essenziale essere consapevoli della nostra presenza nel qui ed ora, come esperienza radicale di noi stessi per essere liberi in una dimensione di continuo presente. Essere consapevoli che è come scendere tra i corpi delle persone, entriamo nel tessuto vivo delle loro esistenze e semplici gesti o movimenti possono trascendere la dimensione razionale consueta. E' quindi importante essere presenti e radicati a ciò che accade, sia fisicamente che mentalmente, disposti a lasciarci stupire ed umili nell'accettare che accada ciò che deve accadere, senza volere, senza forzare, ma con fiducia nell'evento che sta per compiersi, perchè la morte fa paura, è un salto nel buio, nel mistero non ancora svelato.

E' come navigare insieme, anche controvento, verso quello spazio dell'anima dove posso regalare all'altro la mia fedeltà e sa che può contare su di me.

Quando leva l'ancora il marinaio prende in mano la propria esistenza per affrontare talvolta solo e talvolta in condizioni molto dure gli elementi scatenati, contando sulla sua preparazione, la sua calma, la resistenza, l'intelligenza, l'intuizione, le sue sensazioni, il suo cuore.
Si sa che in mare, anche quando si è previsto tutto, l'imprevedibile sarà sempre all'orizzonte.
Percorrere insieme l'ultimo tratto dell'esistenza è come essere in mare e governare una barca a vela. La forza e la passione di chi l'orienta verso la meta, la tenacia di esplorare ogni possibilità, la pazienza di regolare le vele ogni volta che ce n'è bisogno non bastano. Per solcare il mare c'è bisogno di un'attenta e paziente sintonia tra mare, vento, barca, skipper ed equipaggio, che permette di attraversare l'oceano e diventa arte, sorpresa, stupore, ove nulla è lasciato al caso o alla superficialità. Ma arriva sempre il momento di navigare a vista, la più difficile delle navigazioni ove tutto ciò che si conosce con la ragione rimane sullo sfondo. Il linguaggio cambia, si è presenti con tutti i sensi contemporaneamente: con gli occhi si scruta il movimento del mare e l'orizzonte, con il tatto si percepisce il vento sulla pelle, ogni odore può indicarci un segnale, le orecchie si affinano per percepire il minimo rumore, in gola il gusto della saliva per la paura che è sempre compagna del coraggio. Si comunica nel silenzio, con piccoli cenni, con l'intuizione e con il cuore. E poi qualcuno va a prua o addirittura in testa d'albero per cercare di vedere oltre e trovare il luogo sicuro ove finalmente calare l'ancora.






Ha calato la sua  ancora Andrea, che nel simbolo di un vecchio tatuaggio, ha ritrovato il significato del suo morire. Una carpa Koi dorata, che contro la corrente impetuosa risale con coraggio le acque per riposare e rinascere nel lago dell'immortalità.
Daniela, ostetrica che tante vite ha portato alla luce, malata di SLA, rifiutando l'intubazione è stata ostetrica della propria morte, accompagnata dal mio respiro nel suo respiro faticoso, dai miei occhi in quegli occhi nei quali potevi perderti. Ancora sento il calore delle sue lacrime raccolte nelle mie mani.
Titti, angosciata dal pensiero di essere dimenticata dalla figlia di 5 anni, ha riempito i giorni di colori e di entusiasmo, trovando ogni giorno un motivo per il quale valeva la pena di vivere ancora.
Luigi, violento, egoista e aggressivo, cui il perdono di un Dio sconosciuto non era sufficiente a calmare la sua angoscia nella consapevolezza della morte che si avvicinava, in un momento magico, proprio alcune ore prima della sedazione, ha incontrato il perdono delle sue famiglie, il solo perdono che gli ha permesso di lasciarsi andare in pace.
Cosimo, che sembrava risvegliarsi dal suo intorpidimento quando gli leggevo le poesie degli indiani Navajo. Lui, vecchio figlio dei fiori, che in quelle parole in armonia con gli elementi e l'Universo, ritrovava il sorriso e il senso della sua vita.
Mireille, giovane e bellissima, accompagnata a lungo attraverso sentimenti di rifiuto, negazione, disperazione, rabbia, impotenza. Abbiamo trovato insieme un nostro ritmo nel respiro, come se inspirassi il suo dolore di non voler morire ed espirassi verso di lei un sentimento di calma e serenità che le portasse un po' di luce e di pace. Mano nella mano per non farla cadere sola in quel buio che tanto temeva.
Stefania, che dopo mille tempeste, è salita con coraggio in testa d'albero ed ha intravisto la gioia del mistero, conducendoci tutti stupiti fino alla soglia e oltrepassandola consapevole e serena.  

Ho visto occhi morenti 
Correre intorno in una stanza
In cerca di qualcosa - così sembrava -
Poi diventare opachi
E poi velarsi di nebbia,
e poi saldarsi fino in fondo 
senza aver rivelato che cosa
li avrebbe resi beati di aver visto
(E. Dickinson)

Poi, noi, noi...

.........subito si
riprende il viaggio,
come dopo
il naufragio, 
un superstite lupo di mare
(Ungaretti)

Daniela Buvoli è BFRP (Bach Foundation Registered Practitioner), counselor, insegnante di yoga e volontaria da molti anni presso l'Hospice di Casalpusterlengo. Accompagna i degenti e i loro familiari con il counseling integrato da alcuni strumenti tra cui i Fiori di Bach




INTERVISTA SU RADIO LODI

di Maria Chiara Verderi

 

Alessandra Vittadini, una mia stimata collega consulente certificata del Bach Centre, in una serie di 11 interviste ha parlato dei Fiori di Bach nei vari frangenti della vita.

Per arricchire le interviste, Alessandra ha gentilmente voluto coinvolgere in questa occasione anche alcuni altri colleghi specializzati nei vari argomenti. Nell'ultima puntata, l'undicesima, sono stata intervistata anch'io per raccontare l'esperienza che Achille ed io viviamo in Hospice.

Troverete la serie di interessantissime interviste a questo indirizzo:

Radio Lodi - Zona riascolto - NaturalmenteRadioLodi


LE TRE MARIE 

di Achille Tironi - Volontario AHMIS (Amici Hospice Malattie Infettive Sacco)

 


La storia di Milano associa il nome "Le Tre Marie" all'antico forno della Corsia dei Servi. Ai milanesi del boom economico il marchio rammenta soltanto i profumi ed i sapori della Pasticceria del Corso che allietava le feste con una produzione di nicchia della tradizione meneghina.

Successivamente il prestigioso marchio "doc", benchè radicato nella storia di associazioni benefiche e confraternite della città, ha finito per identificare una produzione assai differenziata e rivolta ad una clientela più numerosa, più volubile che esigente, senza memoria del fatto che il sapore del pane, i profumi del burro e la delicatezza della pasta frolla si impastano con la farina di giorni difficili e belli insieme. Con lacrime e sudore, con delusioni e speranze sempre nuove: l'acqua, il sale e il lievito sono elementi preziosi, ma il sapore inestimabile viene dal fare e dal desiderio di crescere insieme.

Ho voluto etichettare con " Le Tre Marie" la vicenda tra noi di tre donne, per semplicità identificate con M., le tre Marie. Nel nostro caso, infatti, si è rivelato prodigioso il recupero di una memoria intrisa di profumi che hanno risvegliato le delicate carezze dei sogni, sufficienti a riconsegnare un presente non più abitato dalla paura ma trapuntato da istanti di gioia.


M1. ha appena compiuto 82 anni quando prende possesso della sua camera, al culmine di un Agosto clemente con i milanesi imboscati in città. E' avvolta nell'ansia e si insedia come una donna senza storia, proprio perchè ha troppe storie da raccontare. Talmente diverse che lei stessa si perde, risucchiata nei gorghi un'ansia impetuosa che le toglie il respiro.

Le concedo tempo, sto a sentirla e tento di isolare, nella burrasca delle parole, le paure vere che provocano sofferenza. Non molla la presa del campanello, sollecita costantemente la nostra presenza (Heather) e ci vuole lì per condividere, a suo dire, la preoccupazione di non poter provvedere al marito ed ai figli (Red Chestnut).

In realtà la diffrazione della sua ansia ci fornisce i tratti di una persona arrogante e prepotente (Vine). Io resisto alle manovre diversive con le quali vorrebbe consegnarmi una realtà conforme alle sue paure e mi ingegno a risalire la corrente fino alla sorgente della sua fanciullezza.

Un cielo senza nubi, una casa piena di sole. Affetti delicati e sogni ne abitano le stanze sotto il cielo della Sicilia. Il ferro rovente che le bruciava l'animo allontana da lei la sua incandescenza, impossibilitato a ferire, non appena i profumi familiari, di cui è pregna la memoria, diventano uno scudo efficace. Il suo animo trova istanti di riposo.

La fragranza del mandarino le ridona l'ottimismo dell'infanzia e le sue parole si fanno leggere, le gote concedono un sorriso e le mani, che prima tormentavano il lenzuolo sopra il petto, lasciano la presa e scendono lungo i fianchi, quasi a sistemare il vestito con un vezzo da bambina.

Nelle sue parole e nei suoi occhi c'è solo lui, il padre. Tenerissimamente accolto.

Rimango confuso a contatto con un passato così nitido e preciso. Lui che aveva acceso i suoi sogni è ancora oggi il suo sole. Ella è sorpresa della bellezza del momento e gode di un istante in cui tutto, dentro di lei e attorno a lei, si è chetato. Respira, ringrazia e sollecita la promessa di un ancora.

Lascio che si culli nel ricordo di un inizio così promettente, assicurandola che mai la fiducia può essere del tutto smarrita.
Dopo alcune settimane potrà rientrare a domicilio portando un peso (Pine) dal quale le sarà difficile liberarsi. Impossibile per lei che è diventata ciò che mai avrebbe voluto essere, introiettando e assecondando la presenza detestata di sua madre.




M2. è preceduta da notizie che ce la annunciano come un caso difficile. Ottantatre anni, un brutto intervento alle spalle, complicazioni successive e condizioni generali precipitate dentro un quadro acclarato di Alzheimer.

La accogliamo con attenzione e garbo ma la sua è "reazione allergica" e siamo costretti a contenerla. Condividiamo però la intuizione che la sua opposizione possa essere dettata da terrore (Rock Rose) e mettiamo in atto una presenza sistematica destinata a tranquillizzarla.

I risultati arrivano presto e così riusciamo nel breve di qualche giorno a liberarla dalle contenzioni instaurando con lei un rapporto disteso nel quale giocano un ruolo fondamentale gli interventi destinati a controllare bene il dolore.

La aiutiamo ad avere ragione delle paure di perdersi e di impazzire che le stringono l'animo (Cherry Plum) originando ansie pomeridiane terribili. Proviamo a vincere l'assedio di pensieri di gelosia e sospetto (Holly) che la rendono rabbiosa e insopportabile, quando percepisce la solitudine.

Si lascia trasportare volentieri per i corridoi e nell'incontro serale con i familiari non presenta più quegli atteggiamenti oppositivi al limite della ingestibilità.
Quando rimango con lei accanto al letto riesce anche a lasciarsi andare a momenti di riposo ristoratore ridestandosi più serena e bendisposta. In certi momenti è come un bambino stremato che non riesce a prendere sonno.

Non ha un carattere dolce, è puntigliosa e non disposta a cedere (Vine) ma, dietro la scorza dura delle sue reazioni, presenta angoli non presidiati, dai quali si può passare. Casa e giardino!
Dirigo su questi l'attenzione lasciando scorrere il suo racconto, pur trovando difficoltà ad ordinarlo coerentemente. Lì batte il suo cuore!

I colloqui con la figlia mi forniscono le corrette coordinate spazio temporali e ci sorprendiamo entrambi della vivacità delle immagini e dello strambo puzzle nel quale sono ricomposte (Clematis).

Al ridestarsi dei ricordi trascorre un pomeriggio tra i fiori e le piante, dimentica del suo essere distesa su una carrozzina basculante. Ci spostiamo nelle stagioni scegliendo il tempo per potare, rinvasare, battagliare con gli insetti. Fa morire d'invidia la vicina mentre passiamo in rassegna le fronde degli alberi dalle vetrate del corridoio, all'altezza dei nidi.

Il migliorare delle condizioni generali acuisce, fino a diventare struggente, il suo desiderio di tornare a casa. La soluzione che si rivela più adatta a lei è quella di un trasferimento in RSA, con disponibilità di un Nucleo Alzheimer.

Il giorno prima del congedo la accompagno a vedere le ortensie paniculate nel parco dell'ospedale, dopo aver provveduto ad accendere la sua curiosità, descrivendole come una rarità.
Ricordo il suo sguardo confuso e la mano allungata, pronta a stringere un desiderio, come un bambino. Ne tastò la consistenza, ne percepì la frescura, ne carpì un sentimento vellutato che mi auguro abbia reso più morbidi i suoi successivi giorni.



M3. conosce bene l'ospedale e ha appena compiuto 86 anni. Una famiglia premurosa attorno, un marito pignolo e scorbutico, day hospital e ricoveri sistematici fino a che non risulta più possibile continuare l'andirivieni abituale.

La incontro qualche giorno dopo il ricovero, ancora sofferente per le difficoltà che si presentano ai medici nel contrastare le punte apicali di dolore.

La figlia, passa tutto il pomeriggio in camera con lei, e tenta di convincerla con abbondanti assicurazioni della provvisorietà di un ricovero in un posto che la terrorizza (Rock Rose). Non vuole essere mobilizzata perchè questa manovra le acuisce i dolori.

Trascorre i primi giorni visitata da una paura cui non riesce a dare un volto (Aspen) ed è infastidita da pensieri che non la abbandonano neppure la notte. (White Chestnut) aumentando i battiti del cuore e provocandole un'intensa sudorazione.

Nei giorni successivi la fortuna le assicura momenti di benessere e le sue ore si fanno più leggere, convincendola della brevità della sua permanenza piuttosto che della instabilità della sua reale condizione.

Pian piano intende riprendere le sue attività pomeridiane anche se le forze stentano a sostenerla (Olive).

La figlia accondiscende al desiderio della madre e la camera si riempie presto di nastrini, stoffe, aghi, fili, spilli, gessetti e forbici. Un laboratorio nel quale le loro mani danno forma ad un modello di gatto a struscio da collocare dietro lo spigolo di una porta, appoggiare al vetro dietro la tenda, distendere sul pianoforte, imbucare sul divano o lisciare in fondo al letto.
Una memoria di gesti collaudati, espressione di una serenità ritrovata dentro un animo che culla sogni domestici.

E al sogno segue anche la realtà di un mattino che la vede rientrare a casa, dopo aver salutato medici, infermieri e volontari riservando a ciascuno parole di sincera gratitudine.


Achille Tironi

   

COME UN FIORE

  di Achille Tironi - volontario AHMIS (Amici Hospice Malattie Infettive Sacco)

Era stato messo a dimora e cresciuto sull'Appennino parmense che ancora oggi offre suggestive visioni e scorci meravigliosi, nei quali si infrattano piccoli borghi.

Aveva con sé il profumo abitato di questo Appennino arroccato e conservava negli occhi il profondo di storie e tradizioni che modellano l'animo insieme ai crinali.

Mi ci specchiavo come la natura si riflette nei suoi laghi e fiumi briosi che, cercando spazi aperti, accolgono i rivoli dei calanchi e riportano alla luce una storia di profondità marine tutt'altro che fossile.

Tutto in quelle valli celebra la vita e l'amore, che ne è culla e cura.

F. era stato di là scalzato dopo una stagione buia e fredda, e radicato altrove. Attecchito bene era riuscito a conservare i tratti della fermezza e della ospitalità, insomma la qualità del saper vivere che, superando le strettoie del dialogico, sapeva promuovere il sapore della fraternità. Il suo nome, prezioso quanto infrequente, descriveva un programma di vita. Diffondere fragranza come un fiore.

Formato al servizio e all'ospitalità nei migliori alberghi della sua città termale, a Milano aveva saputo incontrare il mondo, la varietà delle lingue, la molteplicità delle richieste, accompagnando la risposta con ciò di cui era veramente capace. Un sorriso felice.

Venne da noi quando ormai la malattia, che lo aveva svestito della sua livrea, lo aveva già costretto da mesi in un letto. Era giunto senza più speranze, accudito da una moglie disponibilissima, spossata per la sua dedizione irrefrenabile.

Sei mesi di letto e di ossigeno, esami, accertamenti, interventi, cure e tentativi senza risultato non avevano annientato in F: la determinazione a volersi raddrizzare, reagendo alle preoccupazioni della moglie per la grave dispnea e per gli effetti della sua cronicità ostruttiva.

Centaury fu il primo fiore che preparai per lei. Olive mi sembrò il fiore più adatto per accompagnare le emozioni di F. in mese di Luglio che in città si era presentato caldo, ma con qualche brezza leggera.

La luce intensaa, le giornate lunghe crescevano in lui il desiderio di mettere i piedi a terra.

Assecondai i suoi primi tentativi, mobilizzandolo per alcuni momenti sul letto ma riprendendo quasi subito la posizione distesa, al presentarsi dei giramenti di testa, senso di nausea e dolori articolari che si accompagnano ad estenuanti sforzi.

Presa coscienza della difficoltà, predilesse per qualche tempo la posizione seduta, disteso nel letto, e quando si sentì pronto chiese di essere mobilizzato in carrozzina.

In questo periodo si accesero le sue paure di peggiorare (Mimulus), nella forma di scoraggiamento (Gorse, Sweet Chestnut) e perfino di terrore di fronte ad un esito incontrastabile (Rock Rose).
Riuscimmo nell'intento di mobilizzarlo distaccandolo dall'erogatore centrale dell'ossigeno mediante un erogatore portatile, motivando la necessità di rimanere in camera con l'urgenza di dover ricorrere a pratiche di aspirazione al presentarsi di crisi ostruttive.

Questa novità fu certamente di sollievo per lui, nello spirito prima che nel corpo ma pose in luce aspetti del suo carattere che non conoscevamo: insofferenza nei confronti di chi tardava a condividere questa sua determinazione (Beech).

Ma anche la moglie che lo aveva accompagnato nei suoi ricoveri, non riusciva più a contenere l'ossessione di non fare abbastanza e il senso di colpa di non essere riuscita a staccarlo dal fumo.

Si era sbottonata con me la coscienza perchè questo suo atteggiamento lo irritava e, quella sua paura ossessiva, la rendeva invisa al personale.

Per quanto ci provasse era più forte di lei e non riusciva ad aver ragione di questo suo modo di essere soverchiante, o come io lo definivo, da "carica garibaldina".

Si rese necessario un aiuto anche per lei, stremata da un vissuto troppo pesante e preoccupata di non essere in grado di continuare a portarlo (Elm), proteggedola nel contempo dalla aggrssività che la rendeva invisa (Vine).

Conosco per esperienza diretta la vita degli alberghi e mi risultò facile figurarmi le sue lunghe sere di servizio, occupato in tutto e in niente, disponibile per i problemi veri e le futilità di cui è pieno ogni istante. Quando le luci si spengono e si deve chiudere il giorno, un'atmosfera densa annebbia il sentire. Per fumare si deve uscire, dopo aver chiesto all'aria di invaderti i polmoni.

Insistendo nel farsi una colpa di non avergli impedito di fumare non solo lo irritava ma lo gravava di una responsabilità che nella situazione presente era ancora più difficile da portare.

Il mese di Agosto favorì le prime uscite nel parco: seduto in carrozzina, la moglie al suo fianco, lo sguardo assetato di luce e di colore, chiedeva di essere accompagnato vicino al bar dell'Università. Osservava volentieri i gatti inguattati nella siepe di bosso, snidati dai raggi del sole.

Non era nelle condizioni di parlare e quindi ci si intendeva a cenni; la luce degli occhi e il sorriso erano espressioni di approvazione; il gesticolare concitato, la chiusura degli occhi e la smorfia del viso indicavano una forma di opposizione che poteva crescere fino alla crisi del respiro.

A Ferragosto questo momento positivo, direi euforico per quanto superava ogni nostra previsione, ebbe un repentino arresto. Non sapevo darmene una ragione: anche per l'equipe la cosa non era chiara.

Una forma di risentimento si annidava nel suo animo (Willow) al punto che la nostra presenza lo disturbava. Quando varcavo l'ingresso della sua stanza chiudeva gli occhi, rimanendo immobile come una lucertola, avvolto nel sole che abbondante filtrava dalla finestra della sua camera. Non chiedeva più di essere mobilizzato nonostante le insistenze della moglie.

Dopo qualche giorno lo avvicinai da solo: si lasciò mobilizzare e lo accompagnai nel parco, con meraviglia della moglie che ci aveva seguito.

Compresi allora il motivo di questo suo "distacco": il giorno dopo i familiari avrebbero accompagnato il padre novantaquattrenne a vederlo. Non si incontravano da un anno abbondante e non era stato a lui possibile sentirlo e parlargli per telefono. Questa cosa lo aveva turbato nell'intimo, amplificando un disagio che non era riuscito a domare.

Mi riferirono che il giorno dopo tutto andò per il verso giusto, che F. si era commosso ed era stato molto contento della visita del padre. Io invece lo trovai assai provato, quasi prostrato. Mi guardai bene dal fargli domande dirette sull'argomento ma mi limitai ad assecondare le sue richieste. Mentre lo aiutavo a cenare mise di scatto le gambe sopra le sponde del letto e, con un piglio di complicità, mi fece capire che voleva andare a casa.

Lo ricomposi nel letto e con parole determinate gli feci comprendere che la cosa non era possibile, a meno che i medici decidessero di assecondarlo.

Nei giorni successivi i medici, sentita la moglie, acconsentirono al trasferimento in una struttura più vicina a casa, presentando a F. la proposta come un aiuto concreto alla moglie che si muoveva con i mezzi pubblici. Nessuno fu certo di come l'avesse presa, ma la famiglia si mosse in questa direzione.

Settembre scivolò tra alti e bassi con momenti di sopore accompagnati da un calo di lucidità (Clematis). Le sue reazioni si facevano più istintive, meno garbate, con tratti reattivi marcati (Holly). Questa soluzione non era quella che F. desiderava e, l'avere messo a fuoco l'impossibilità di un rientro domestico, lo aveva stordito.

Il mese di Ottobre lo trovò impegnato nel tentativo di dimostrare che potava stare staccato dalla cannula dell'ossigeno senza desaturare pericolosamente. Ma le crisi respiratorie non consentivano ai medici e alla intera equipe di sperare in prospettive riabilitative.

L'ultimo pomeriggio volle scendere in carrozzina e lo accompagnai per i corridoi: il meteo non concedeva altre possibilità. Salutò la moglie verso le quattro e stette in mia compagnia fino alla cena. Lo lasciai alle 18,30: non aveva voluto il vassoio ma si era limitato a chiedere un budino alla vaniglia.

Mentre lo assumeva, parlando dei medici, gli avevo confidato che una mia zia novantenne aveva così sintetizzato il suo rapporto: "Io ho più paura dei medici che delle malattie".

Trattenne a stento la risata e il suo viso si accese in un sorriso largo quale non vedevo da giorni. Lo salutai come tante altre volte, lasciando che mi stringesse le mani prendendomele in mezzo alle sue: I suoi occhi sprizzavano gioia e  bontà insieme, ricambiando l'amicizia che gli dimostravo.

Se ne andò all'improvviso e in silenzio appena mezz'ora dopo. Lo trovarono con il volto disteso e disposto al sorriso.

Quando entrai nella sua camera sanificata percepii ancora la sua presenza: il profumo abitato di un Appennino arroccato e il profondo di storie che danno sapore alla vita.



Achille Tironi    

BURNOUT E FIORI DI BACH

di Maria Chiara Verderi

 

Il termine burnout (dall'inglese "bruciato", "scoppiato") viene coniato dai giornalisti sportivi anglosassoni negli anni '30 per descrivere la situazione di un atleta che, dopo una serie di successi, a causa del venir meno degli stimoli motivazionali, pur essendo in ottima forma fisica non è più in grado di ripetere i precedenti risultati.
Trasposto in ambito psicologico, questo termine viene utilizzato per indicare particolari situazioni critiche in ambito lavorativo, specialmente per quanto riguarda le professioni ad elevata implicazione relazionale.
Lo psicologo Herbert Freudenberg per primo nel 1974 utilizza questo termine per descrivere le condizioni di esaurimento fisico ed emotivo riscontrata tra gli operatori impegnati nelle professioni d'aiuto. In queste professioni gli operatori si fanno carico di grandissime responsabilità e sono costretti ad orari prolungati e ritmi di lavoro molto intensi. Inoltre il contatto con la sofferenza dell'utente è continuo e richiede una non comune capacità di prendersi carico del dolore altrui. L'esposizione a troppe emozioni, soprattutto negative ed intense, porta l'innescarsi di presupposti che favoriscono lo stress.
Gli studi più approfonditi sul burnout nella sanità sono stati condotti dalla dottoressa Christina Maslach a partire dal 1982.
La dottoressa Maslach evidenzia tre categorie di sintomi che evidenziano la fase conclamata della sindrome del burnout:
  1. comportamenti che testimoniano un forte disinvestimento sul lavoro (assenze, ritardi frequenti, alta resistenza a recarsi al lavoro, scarsa creatività, resistenza ai cambiamenti,...).
  2. comportamenti autodistruttivi (disturbi di carattere psicosomatico o del comportamento, diminuzione delle difese immunitarie, senso di stanchezza ed esaurimento, depressione,  senso di colpa, apatia, irrequietezza, insonnia, nervosismo, vere e proprie patologie come ulcere, cefalee, difficoltà sessuali, aumento o diminuzione ponderale,  aumento della propensione agli incidenti,...)
  3. comportamenti distruttivi diretti all'utente (indifferenza, violenza, crudeltà, cinismo, spersonalizzazione,...)
Gli psicologi del lavoro già da molti anni hanno notato che il contesto sociale e lavorativo, principalmente quello degli operatori dell'aiuto, è quello maggiormente in grado di attivare risposte di stress sia dal punto di vista comportamentale sia da quello fisiopatologico.
La sindrome del burnout, tuttavia, si differenzia dallo stress (che infatti può, al più, essere una sua concausa) e anche dalle diverse forme di nevrosi in quanto non può essere considerato un disturbo della personalità. Deve invece essere considerata una malattia correlata principalmente all'attività lavorativa e come tale da prevenire in quanto conduce inevitabilmente ad una diminuzione delle capacità professionali.
Poichè tutte le attività lavorative implicano contatti interpersonali e quindi un certo livello di tensione, oggi non si fa più riferimento solamente al rapporto tra operatore dell'aiuto e utente bensì al rapporto di qualunque professionista con il suo lavoro. Oggi, infatti, si parla di Job Burnout.
Secondo la dottoressa Maslach le cause possono essere ricondotte a tre grandi variabili:
  1. VARIABILI ORGANIZZATIVE - riguardano le modalità di funzionamento dell'attività e possono svilupparsi quando si verifica una decisa discordanza tra la natura del lavoro e quella della persona che svolge il lavoro. Ad esempio: sovraccarico di lavoro, mancanza di controllo sul proprio lavoro, mancanza di riconoscimenti, mancanza di equità, conflitti di valori, scarsa integrazione sociale,....
  2. VARIABILI INDIVIDUALI - sebbene non esista una personalità-tipo, possono però essere individuate una serie di caratteristiche che rendono la persona più predisposta al burnout: ansia, stile di vita competitivo, rigidità mentale, introversione, bassa autostima,...
  3. VARIABILI SOCIALI - sono i fenomeni sociali tipo il progressivo sfaldarsi del tessuto sociale  che, a causa del declino della vita comunitaria e della famiglia patriarcale, ha comportato la riduzione o la scomparsa degli spazi di sostegno informale rappresentati da parenti, amici, persone con cui era possibile condividere affetti e interessi e che rappresentavano un punto fermo di sostegno importantissimo. Tutto questo comporta una maggior fragilità negli individui.
Le conseguenze sono, sempre secondo la Maslach, uno stato di esaurimento emotivo, di depersonalizzazione e di ridotta realizzazione personale.

Il burnout è un processo che non si manifesta improvvisamente ma si instaura in modo talmente graduale che chi ne è soggetto spesso ne è inconsapevole, sente che qualcosa non va ma a volte non è in grado di quantificare o qualificare il suo disagio e continua a lavorare cercando di ignorare questa sensazione. Il rischio, purtroppo, è più elevato nelle persone maggiormente dotate di capacità personali e che idealizzano il proprio lavoro. Possiamo quindi immaginare la portata del problema in ambiente ospedaliero, un ambiente in cui la cura delle persone sofferenti è il punto centrale e in cui non ci si può permettere di perdere questo tipo di operatori.
Il processo di insorgenza si sviluppa in quattro fasi distinte:
  1. ENTUSIASMO IDEALISTICO - le motivazioni che hanno spinto la persona a scegliere proprio quel tipo di lavoro
  2. STAGNAZIONE - quando si scopre che il lavoro non soddisfa del tutto i bisogni dell'operatore per cui si passa da un superinvestimento iniziale ad un graduale disimpegno
  3. FRUSTRAZIONE - in questa fase il pensiero dominante è quello di non essere più in grado di aiutare nessuno
  4. DISIMPEGNO EMOZIONALE - si verifica un graduale passaggio dall'empatia all'apatia. Questa è una vera e propria morte professionale dell'operatore.
La sindrome del burnout non riguarda solo la persona che ne è soggetta ma si comporta come una specie di malattia contagiosa che si propaga da un operatore all'altro. Ci si può facilmente rendere conto che in casi del genere le conseguenze avranno un forte impatto a livello degli operatori, a livello dell'utenza, a livello dell'azienda e a livello dell'intera comunità.
Proprio per questi motivi l'obiettivo cui ogni azienda dovrebbe mirare è quello di individuare e trattare al più presto i lavoratori sofferenti, rilevare l'effettiva diffusione del problema, offrire agli operatori corrette informazioni e una formazione adeguata per far fronte al fenomeno, promuovere spazi dedicati alla conoscenza di se stessi, delle proprie aspettative, dei propri punti di forza e debolezze, promuovere corsi per aumentare le competenze emotive e istituire gruppi di ascolto e di auto-mutuo-aiuto.
Ogni operatore dovrebbe imparare a riconoscere i propri limiti nella gestione delle sofferenze altrui e, in caso di dubbi, cercare aiuto.

Molti sono gli strumenti che possono essere utilizzati per la prevenzione di questo fenomeno: interventi psicologici e di counseling, tecniche corporee, tecniche di modulazione dello stress.
I Fiori di Bach sono un'eccellente strumento di riequilibrio degli stati emotivi, quindi, per questo problema come per molti altri, possono aiutare e affiancare armoniosamente ogni altra tecnica e cura.
La semplicità del metodo originale del dott. Bach lo rende uno strumento facilissimo da apprendere e che è possibile utilizzare in completa autonomia. D'altra parte questo fu uno dei più grandi desideri del dott. Bach: mettere ogni persona in condizione di poter aver cura di sè per ottenere serenità e benessere.
Nel 1936 a Wallingford, durante una conferenza, dichiarò: "Questo sistema terapeutico è stato realizzato, divulgato e donato gratuitamente affinchè tutti possano curare se stessi". 
E' un metodo sicuro e senza controindicazioni, non interagisce con le cure mediche o psicologiche o con i farmaci.
Basta individuare gli stati emotivi che procurano disagio e concentrarsi solamente su quelli, ignorando i sintomi fisici, per poter comporre un bouquet di rimedi adatti ad ogni possibile alterazione emotiva. Questo è il metodo originale che il dott. Bach ha messo a punto grazie ad anni ed anni di attenti studi e pazienti osservazioni e che il Bach Centre tramanda e divulga in tutta la sua originalità e purezza.
I Fiori di Bach sono entrati nel nostro Hospice da parecchi anni oramai. Sono presenti in ciotole d'acqua nelle camere di ogni degente, sono presenti in ciotole nei locali delle infermiere, amici discreti e benevoli, sempre a disposizione di chiunque ne faccia richiesta, in qualsiasi momento.

Stefan Ball nel suo libro "Floriterapia di Bach" scrive:
"I rimedi floreali del dott. Bach, noti in Italia con il nome suggestivo di Fiori di Bach, sono in tutto 38 e ciascuno interessa un particolare stato mentale o emotivo. Non curano direttamente la malattie a livello fisico, ma ripristinano una condizione di armonia mentale grazie alla quale le naturali difese dell'organismo possono svolgere più efficacemente il proprio compito." 
"I Fiori di Bach costituiscono un sistema completo, perchè trattano le emozioni e non gli eventi che provocano. Non sono rimedi di oggi, di ieri o del futuro, ma sono sempre validi". 


Maria Chiara Verderi

 

fonti:
Burnout - C. Maslach, M. Leiter, F. Pellegrino, A. Valdambrini, G. Contessa, M. Tronci, F. Lamanna, D. Galati, O. Fassio, M. Viglino
Fiori di Bach - E. Bach, N. Weeks, S. Ball
 



 

LA REGINA NERA

di Achille Tironi - Volontario AHMIS (Amici Hospice Malattie Infettive Sacco)





"La Regina". Le avevo appiccicato questo soprannome non appena incontrata. Trascorse con noi pochi giorni, giusto il tempo di fare conoscenza. La malattia se la portò via di corsa, così come ce l'aveva consegnata, senza rumore, lasciando anche in me un ricordo indelebile e per niente superficiale.

L'avevo avvicinata "seduta in trono", bellissima, nera come l'ebano. Avvolta in una vestaglia scarlatta che le scendeva fino ai piedi, aveva preso posto sulla poltrona con la spalliera alta. L'aveva voluta a ridosso della finestra e rivolta all'ingresso della camera.

L'avorio dei denti, il bagliore degli occhi e il pallore delle unghie trapuntavano di luce la sua persona.

Lei rimase sorpresa dal mio ingresso fuori protocollo: mi ero avvicinato a lei con un sorriso garbato e la mano slanciata per una stretta cordiale. Nello slancio colsi sul suo volto un "Ma dove sono finita?". Il dado era tratto e non potevo più bloccarmi senza rivelare il mio disagio.

Nella stessa mattinata già altri le avevano ronzato intorno accesi da premure diverse, ma nessuno aveva ancora osato avvicinarla con un "Ciao, benvenuta! Sono un volontario, mi chiamo Achille".

B. esitò un attimo ma si adeguò prontamente stringendomi con forza la mano. Al distacco la sua mano mi invitava a prendere posto sulla poltrona alla sua destra. Avevo osato troppo: ora dovevo ubbidire e stare a sentire.

Parlava un italiano perfetto. Il tono risoluto conferiva alle sue parole un non so che di perentorio senza essere soverchiante. Parlava e il suo dire chiedeva approvazione anche quando esprimeva richieste o poneva interrogativi. L'attitudine al comando era entrata in circolo, era in lei sangue e linfa.

Non mi parlò di lei, o almeno non lo fece come accade a me quando srotolo i ricordi, confido le mie emozioni. Non parlava di sè ma della storia, ne forniva una lettura filosofica, ne rivelava il senso guardando alla sua vicenda come a un'interpretazione riuscita, variazione su un tema al quale lei aveva aderito con tutto il cuore.

Emanava dalle sue parole il fragore di eventi che avevano dato forma alla sua giovinezza e segnato la sua maturità. Eppure tutto mi era offerto senza rammarico: una consegna inattesa, uno squarcio di chiarezza interiore, il sapore di un frutto maturo.

Lei, nel suo essere lì accanto a me, era concreta luce che ne rischiarava la comprensione, lei nata per essere lievito e consistenza, sorgente di prosperità, presenza totalizzante.

Lei ora, come una fiera ferita, accovacciata e senza lamento, puntava ancora gli occhi sulla savana prima che il sole li accendesse con i colori del tramonto.

Io stavo zitto, attento e registravo anche le pause di un racconto, così lontano dalla mia esperienza. Al momento percepivo quel profumo che emana dai libri di favole, di quelle che hanno sempre un bosco oscuro, una notte senza luna, l'orco e gli stivali delle sette leghe. Favole che non incutono angoscia e terrore ma ti avvolgono di tenerezza e tepore.

Avevo conosciuto i volti della sua famiglia, avevo sentito la voce del padre e del suo popolo, mi aveva fatto sporgere su catastrofi mostruose e, risparmiandomi ferite fisiche ed economiche, mi aveva accompagnato in fughe e percorsi di salvezza. Con lei avevo sperimentato cadute e riprese.

Impavida, nulla poteva ferirla: lei era espressione riuscita di uno slancio di grandezza che le batteva ancora nelle vene.

Conosceva ormai tutto della sua malattia e dell'appuntamento cui non poteva sottrarsi, dal giorno dello schianto sull'autostrada di S.Marino.

Non ricordo come feci ad alzarmi da quella poltrona ma, la notte, rivisitai il racconto e finii per accostarlo a parole sante e audaci:
"Quanto a me, il mio sangue sta per essere sparso in libagione ed è giunto il momento di sciogliere le vele. Ho combattuto una buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede. Ora mi resta solo la corona di giustizia che il Signore, giusto giudice, mi consegnerà in quel giorno; e non solo a me, ma anche a tutti coloro che attendono con amore la sua manifestazione".

Quattro giorni più tardi, al corrente dell'aggravarsi del suo stato, venni a sapere che B. era vegliata dalla sorella, venuta da un paese europeo.

Entrato nella stanza trovai B. distesa nel letto, composta, gli occhi ancora luminosi, la bocca serrata. Salutai con un cenno del capo la signora che stava seduta immobile ai piedi del letto e, avvicinandomi a B. le presi la mano accarezzandola dolcemente.

Si alzò di scatto come per fermarmi ma si arrestò e si ricompose seduta non appena un respiro di gratitudine sollevò il petto di B. e con la mano mi toccò la fronte.

Rimasi vicino a lei tenendole la mano fino quando gli occhi divennero pesanti e il respiro si fece calmo e ritmato.

Ebbi modo di parlare con la sorella e fu lei ad aiutarmi a comprendere meglio la situazione per essere di conforto all'anima orgogliosa e provata della primogenita del capo di un popolo.

Continuai a portare nella sua stanza l'unico Fiore di Bach che avevo fino a quel momento suggerito come utile (Water Violet).

Avevo, infatti, incontrato una persona rara che aveva bisogno solo di tenerezza e la mia presenza fu sua compagna negli ultimi giorni.





Achille Tironi     

Passeggero vai, non avere paura!

di Achille Tironi - Volontario AHMIS (Amici Hospice Malattie Infettive Sacco)




L'avevano accompagnato da noi a fine mattinata, dopo un passaggio animato per il "Pronto Soccorso". Giunto da poco, già si trascinava per qualche momento fuori dalla camera lungo i muri del corridoio, con un incedere incurvato, strisciando sui piedi.

Ci eravamo accorti che nel reparto non avevamo un letto capace di contenere distesa la sua lunghezza. Guardavo "sua altezza", la sua corporatura esile e scavata, mentre lentamente si allontanava. Maglietta e pantaloni, più che indossati, figuravano posti su uno stenditoio di fortuna.

Lo sguardo tratteneva fierezza ma segni di delusione solcavano la maschera del viso contratto e poco disposto al sorriso. Percepivo lo stridore di pensieri ruvidi che, dibattendosi, gli graffiavano l'animo e non concedevano riposo alla mente. Era esausto e, impossibilitato a fuggire altrove, misurava a spanne la strana gabbia che si era trovato intorno.

Portai in camera sua la ciotola con i Fiori che avevo preparato per aiutarlo ad avere ragione dello chock che doveva aver provato passando l'ingresso dell'Hospice. Rescue Remedy, poi Mimulus per vincere la paura e Water Violet per evitare il rischio di una chiusura in sè. Buttai l'occhio in giro in cerca di un appiglio che mi permettesse di sollevare il mio volto all'altezza del suo e addolcire il suo sguardo. Appesa e quasi del tutto nascosta dalla porta, avevo riconosciuto la maglia ufficiale delle partite internazionali.

Milan! Milan! Lanciai in corridoio il roco eco della curva nord capace scaricarti da ogni altro pensiero, vibrando all'unisono con la struttura dello stadio.

Un sorriso ampio accolse il mio cinque e, senza una parola in più, gli sfuggii strisciandolo e camminando deciso nella direzione opposta, proprio come se fossi atteso altrove. L'aggancio era riuscito.

Lo ritrovai, di ritorno, sull'ingresso della camera, orgoglioso per la maglia della quale avevo intravisto solo il bianco e i colori sociali. Me ne mostrava il dorso, distendendola all'altezza del mio viso: 92 EL SHAARAWY e la firma autografa del "Faraone".

Due giorni più tardi accolse refrattario il mio invito per una passeggiata nel parco. Sentiva il bisogno di riposare e soffriva sul fianco sinistro: mi accordai per due ore più tardi avventurandomi in un colloquio reso impraticabile dalle mie carenze linguistiche. Avevo però appreso l'indispensabile.

O. veniva dalla Nigeria, aveva 33 anni, era solo, la corona del rosario al collo, la Bibbia sul tavolino, un intervento invasivo alle spalle, il presente in un dormitorio di periferia, nessuna voglia di ritornare a casa. Destinazione Inghilterra.

Restò con i suoi pensieri, disteso sul fianco sinistro, le gambe contratte ed i piedi fuori dal letto. Gli occhi erano aperti, senza fissare la parete; li attraversava una densa nebbia di delusione che non voleva svanire.

Lo lasciai cercando dentro di me le parole del bellissimo canto con cui Giosy Cento si china con commovente dolcezza sul lacerante distacco che ogni giorno si consuma davanti ai nostri occhi senza scuotere la nostra indifferenza.

Tu sei la mia sorgente, sei la stella mia,
mi hai partorito un giorno, sei la mamma mia,
a piedi nudi e freddi ti ho calpestato
e tu mi hai sussurrato: un fiore bello è nato.

Tu sei mia sorella, sei la mia ragazza,
ci siamo fidanzati un giorno sulla sabbia.
In tasca i pugni stretti per sentirmi forte,
ho alzato la mia vela e ho pregato il Vento.

Terra, guardo il mare e vado via,
nei miei occhi solo tu,
il vero grande amore, il cielo su di me,
uno strappo di dolore che mi porta via da te
e il vento è nostalgia di chi ritornerà. (1)

Abbiamo trascorso insieme il pomeriggio fino all'ora della terapia serale. Un passo dopo l'altro, taciturno ma con gli occhi attenti, si è portato via di me più di quanto potessi prevedere. Gli ho mostrato tutta la struttura dell'Ospedale, Università compresa, con l'intento di accendere in lui fiducia e contrastare la resistenza originata da esperienze che lo avevano segnato negativamente.

Mentre sorseggiava un'aranciata al bar dell'Università guardava ragazze e ragazzi, appena più giovani di lui, a cui la vita offriva possibilità di cui non si rendevano conto. Teneva tra le mani la lattina vuota, la appoggiava e poi la riprendeva. Lui stesso era chiamato a dover conferire peso a situazioni e cose con un'urgenza che non consentiva esitazioni. Anche la mia persona gli creava interrogativi che non riusciva ad esprimere.

I suoi giorni erano stati amari  e avari di dolcezza, sperimentando sulla sua pelle ciò da cui noi volontari dovremmo sempre guardarci. Quando ci facciamo strada, ci avvantaggiamo servendoci proprio di coloro per i quali la vita è già troppo pesante, aggiungiamo peso al peso. Il ricevere, pure se abbondante, in questo caso mortifica, cancella il sorriso e spegne i sogni.

Seguirono giorni in cui risultò arduo, e per lui doloroso, medicare la sua anima che gridava aiuto. Ritenemmo per lui indicati nuovi Fiori: Walnut per accogliere la nuova situazione; Oak per favorire l'affidamento alle persone che promettevano di accompagnarsi a lui.

Al corrente della sua diagnosi trovò grande difficoltà a prendere atto di una prognosi che lo inghiottiva senza scampo. Il progredire del male e il venir meno delle forze lo convinsero molto presto dello sfiorire di ogni possibilità e gli proponemmo i Fiori Rock Rose e Sweet Chestnut per aver ragione del terrore e dell'angoscia che una simile presa d'atto comportava.

I suoi giorni, attraversati da un dolore e da un'ansia indomabili, divennero insopportabili. Favorimmo per qualche giorno il suo rientro presso la Comunità che lo aveva ospitato prima del ricovero, pronti a riaccoglierlo quando l'ansia e il dolore divennero incontenibili.

Ospitammo la sua persona, la sua rabbia (Holly) e il suo risentimento (Willow) motivati dal sospetto che non fosse stato fatto tutto il necessario per lui. Cercammo la sua comprensione (Beech) perchè ci consentisse di stargli vicino nell'ultimo tratto di un viaggio diretto ad una diversa meta.

Passeggero vai, non avere paura
la tua alba è sempre accesa
e il sole ti fa strada. (2)




 Achille Tironi

(1) Giosy Cento: "La Vela e il Vento"
(2) Giosy Cento: "Passeggero